Disastro in Giappone, bilancio e prospettive della tecnologia nucleare

06.05.2011 15:34

 

Immagine satellitare dopo l'esplosione di ieri al reattore 3 di FukushimaVenerdì scorso la terra in Giappone ha tremato con una magnitudo 9 della scala Richter, e fino a qui la notizia non ci sarebbe, in quanto i terremoti in Giappone sono all’ordine del giorno. Il danno maggiore il Giappone lo ha ricevuto dal maremoto, che in seguito allo spostamento orizzontale delle faglie nippo-oceaniche, si è abbattuto sulla terra ferma viaggiando ad una velocità di circa 1000 km orari e percorrendo 300-500km di oceano pacifico in 15-30 minuti. Lo tsunami ha massacrato la popolazione civile sulla costa nord orientale del Giappone che, inerme, si è vista arrivare un conglomerato di miliardi di metri cubi d’acqua, fango e detriti che ha creato danni stimati dal FMI e dalle agenzie di rating per un valore che si aggira attorno ai 40-50 miliardi di euro.

Si aggiunga inoltre il danno psicologico che ha seguito il terremoto, che ha bruciato in circa 3 giorni le quotazioni in borsa per un valore di altri 20 miliardi di euro circa, con decrementi medi giornalieri dell’indice Nikkei di Tokyo del 10%. Ma l’economia nipponica non è, per fortuna l’economia italiana, anche se per certi versi ci assomiglia, specie sotto l’aspetto strutturale. L’economia nipponica è infatti composta di miriadi di piccole e medie imprese, a cui però si aggiungono i grandi gruppi industriali come Toyota, Toshiba ed altri, specie nel campo della tecnologia. Il Giappone si differenzia dall’economia italiana dal punto di vista dell’uso massiccio delle tecnologie in tutti i campi.

L’economia nipponica è la terza del mondo, con un Pil di circa 130 miliardi di Euro (pari al Pil di Italia e Germania messe insieme), ed una popolazione che è circa il doppio di quella italiana, ma a livello di infrastrutture e di tecnologie non conosce eguali nel Mondo. Detto ciò, va aggiunto l’incubo che stanno vivendo la popolazione giapponese e il resto del mondo  nell’apprendere gli sviluppi drammatici presso i reattori nucleari nella regione settentrionale del paese, soprattutto quelli della centrale nucleare di Fukushima.

Il maremoto, che viaggiava all’incredibile velocità di di 1000 km/ora (e non c’è tecnologia attuale che possa resistere ad un’onda simile) ha disattivato mandando in tilt i circuiti elettrici dei sistemi di raffreddamento delle centrali nucleari, soprattutto quelle di cosiddetta “terza generazione”, risalenti agli anni ‘70-’80, in particolare la centrale nucleare di Fukushima le cui pompe di raffreddamento non hanno funzionato e le barre di combustibile (stronzio, uranio e plutonio) si sono surriscaldate ed hanno cominciato a sprigionare idrogeno che ha creato delle vere e proprie bombe, che hanno fatto esplodere le pareti e le coperture dei 4 reattori nucleari . Certo il “nocciolo” non è ancora stato raggiunto, ma se si prosegue di questo passo non si dovrà attendere tanto.

Nella storia, la fusione del nocciolo è avvenuta una sola volta, nel 1986 a Chernobyl, quando una procedura malaccorta mise fuori uso i sistemi di raffreddamento e controllo. Qualche anno prima, nel 1979 a Three Mile Island negli Usa, la fusione totale del nocciolo venne evitata all’ultimo momento (si fuse soltanto il 25 per cento). Nel caso di Chernobyl l’incidente fu di particolare gravità perché la centrale era a “cielo aperto”, vale a dire che il nocciolo non era chiuso in una gabbia di contenimento. In genere il nucleo di una centrale nucleare è chiuso in un contenitore in acciaio, e quest’ultimo a sua volta è racchiuso in un pesante “cubo” di cemento armato. Quest’ultimo accorgimento a Chernobyl mancava, per cui quando esplosero i tubi degli impianti idraulici di raffreddamento in seguito alla pressione provocata dal calore eccessivo, ci fu una dispersione nell’atmosfera di grandi quantità di sostanze altamente radioattive.

Il cubo di contenimento dei reattori di Fukushima, al momento, sembrano avere resistito, anche se sull’argomento le notizie sono contrastanti e difficili da verificare. Il problema è che, nel caso il nucleo dovesse fondersi, i reattori si trasfomerebbero in sarcofaghi perpetui in cui è chiusa una massa informe di metallo fortemente radioattivo, inavvicinabile e intrattabile. Questo, in pratica per l’eternità: occorrono milioni di anni perché la radioattività naturale dell’uranio e soprattutto del plutonio, presente nel reattore 3, si estingua naturalmente.

Il rischio più grave è che, nel corso delle procedure per domare gli incendi nei reattori di Fukushima si verifichi qualche ulteriore incidente di tipo esplosivo, a causa della pressione soverchiante o dell’idrogeno che si sviluppa per reazioni incontrollabili, e che questo liberi nell’atmosfera grandi quantità di materiale radioattivo. Per questo, al fine di raffreddare il nocciolo, i giapponesi stanno ricorrendo a ogni mezzo possibile, compreso l’impiego di acqua di mare (assai rischioso, perché è altamente corrosiva).

Ed ecco che per questo è lecito porci la seguente domanda, non da “sciacalli” ma dibattendo su un tema che non dovrebbe avere alcun colore politico:

- Poichè l’uranio ed in generale tutti i combustibili (ivi inclusi quelli atomici) non sono illimitati conviene spendere miliardi di euro per riportare il nucleare in Italia?
- Se non riusciamo a smaltire i semplici rifiuti con la dotazione di impianti che abbiamo, con quelli nucleari come faremo?
- Poichè l’Ialia è un territorio fortemente sismico (terzo al mondo dopo Giappone e la “faglia di Sant’Andrea”) e le tecnologie – anche le più evolute – non riescono a fermare la forza della natura come un maremoto, come potremmo gestire una situazione del genere?
- D’altro canto è pur vero che abbiamo ben 13 centrali poste sui confini con gli stati europei con noi confinanti come Germania, Francia.

 
 
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